giovedì 26 marzo 2020

SOREN KIERKEGAARD



LA VITA

Søren Kierkegaard (1813-1855), nato a Copenaghen, in una famiglia numerosa mostrò fin dall’adolescenza, segnata dalla sofferenza, un carattere riflessivo, introverso e malinconico. Altro elemento indispensabile per comprendere il pensiero di Kierkegaard è la sua elevata religiosità, contrassegnata soprattutto dal dramma della crocifissione e dalla frequentazione di concetti come quelli di dolore e di peccato. 

Per quanto riguarda la sua formazione, Kierkegaard ascoltò, nel 1841 a Berlino, le lezioni di Schelling da cui fu dapprima colpito positivamente, per poi restarne deluso. Nello stesso anno pubblica “Sul concetto di ironia” (1841) mentre negli anni successivi continua la sua attività di intellettuale, con articoli divulgativi e saggi filosofici quali Aut-aut (1843), “Timore e tremore” (1843), Il concetto dell’angoscia (1844) La malattia mortale”. 

Questi ultimi anni, sempre poveri di eventi esteriori di rilievo, furono contrassegnati da un’aspra polemica sullo statuto della cristianità, intrattenuta con le gerarchie della chiesa luterana danese, e causarono alla personalità di Kierkegaard, estremamente sensibile, grandi sofferenze.


IL PENSIERO

Il pensiero soggettivo di Kierkegaard è il pensiero del concreto esistente, che nulla ha a che vedere con la ragione trascendentale kantiana o con la ragione astratta hegeliana; un pensiero che è infinitamente più interessato all’esistenza stessa, con i suoi fatti concreti e la sua drammaticità che neanche la Cristianità stabilita è in grado di cogliere.

Contro la dialettica hegeliana che è sintesi degli opposti e che impone all’esistenza universale e collettiva una cammino necessario, Kierkegaard  difende la possibilità di scelte libere tra alternative inconciliabili. 
È questo, in sintesi, il significato dell’espressione aut-aut, la scelta che deve essere continuamente affrontata da ogni individuo che, a fronte della sua libertà personale, non può delegarla o demandarla ad altri. Questa scelta personale diviene necessaria per affrontare gli stadi dell’esistenza e per passare, in modo libero e volontario, da uno all’altro di essi. 

Kierkegaard distingue:


  • Lo stadio estetico dove l’uomo vive sempre e solo nel momento, nella pura particolarità: è lo stadio della sensibilità e del rifiuto di tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio. La vita dell’esteta è contrassegnata dalla ricerca di sensazioni sempre nuove, dall’idolatria dell’instante e dal rifiuto di ogni legame stabile, sia affettivo che sociale. La figura che esemplica al meglio lo stadio estetico è quella di Don Giovanni, seduttore che passa da una donna all’altra senza mai legarsi e senza alcuna prospettiva.

  • Lo stadio etico è connotato da stabilità e ripetitività, come ben dimostra la figura simbolo del matrimonio: qui l’uomo si sottopone a una regola e a un impegno costante nel tempo, scegliendo l’universale. La verità di sé e della propria vita, la possibilità di guardarsi davvero come un io è ottenibile solo attraverso il pentimento, l’ultimo passaggio della vita etica, dove l’uomo si pone di fronte a un Dio personale rivelatosi in Cristo, incontro questo che gli consente di passare allo stadio successivo.

  • Lo stadio religioso trova la propria rappresentazione più pregnante nella figura di Abramo, disposto a sacrificare il figlio Isacco. In questo stadio l’uomo affronta il proprio io e gli aspetti di esso – l’angoscia e la disperazione – che finora non era stato in grado di capire e risolvere. L’uomo ha qui la possibilità di decidersi per il “salto della fede”, una scelta richiesta dal Dio della rivelazione cristiana e che è al di là della ragione, come ben dimostra il caso di Abramo.



In “Aut-aut” Kierkegaard considera l’angoscia come un sentimento strutturale in ogni essere umano dal momento che il suo modo di conoscere è essenzialmente sospeso nei confronti del futuro: mentre Dio del futuro sa tutto e gli animali nulla, l’uomo vive l’indeterminatezza del futuro, guarda al futuro in quanto indeterminato ed è qui che sorge l’angoscia, un sentimento che ha sempre un oggetto indeterminato, a differenza della paura. 

Ne “La malattia mortale” è invece la disperazione ad essere compiutamente tematizzata come incapacità dell’uomo di accettare sé stesso, come condizione in cui l’uomo dispera di sé stesso. Mentre la natura umana consta, nella sua complessità, di differenti fattori in constante dialettica, gli uomini sono preda della disperazione perché, incapaci di accettare tutti questi fattori, rinunciano ad essere completamente sé stessi, puntando sul solo fattore che riescono a controllare meglio.

Solo attraverso il Cristianesimo l’uomo riesce a guardare alla verità di sé stesso in tutta la sua complessità. Abbracciando il Cristianesimo l’uomo riesce a superare l’angoscia, dal momento che nessun evento contingente futuro, per quanto negativo, riuscirà a sottrarre all’uomo un bene eterno al quale è possibile accedere solo attraverso un atto di libera scelta, attraverso l’accettazione della libertà umana che nessun evento contingente futuro può mettere in discussione.  


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